Adriano Olivetti, il Mezzogiorno e i Sassi di Matera (saggio di Alessandro Pellegatta).
In un momento di profonda crisi dei partiti in Italia, di mancanza di coerenza, di crisi di rappresentatività, di mancanza di verità, tutti siamo in pericolo. Il vuoto della politica, come in passato, come durante la crisi dell’Italia giolittiana, genera mostri e mostruosità. Ma è proprio nel buio più profondo che compare la prima luce del giorno. Ed è proprio quando i giorni si fanno più faticosi e difficili che corre in aiuto la realtà dell’utopia.
L’Italia, lo sappiamo bene tutti, ha avuto un Risorgimento incompiuto. Da questa incompiutezza nacque il colonialismo. Per decenni le disperate condizioni del Mezzogiorno sono state negate, rimosse. Il più grande problema nazionale è ancora davanti ai nostri occhi. Ma ci fu un uomo che riuscì, col suo movimento Comunità, a dare fiato alle speranze e ai pensieri di sviluppo locale e, attraverso esso, ai sogni di sviluppo del Mezzogiorno.
Adriano Olivetti, figlio di Camillo, alle cure di dirigente industriale aggiunse uno spiccato interesse per gli aspetti sociali della vita aziendale e per i problemi urbanistici. Direttore del piano regolatore della Valle d’Aosta e presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, fondò nel 1946, dopo una breve milizia socialista, il movimento Comunità, che crebbe d’importanza specie nel campo della diffusione della cultura economica e sociale. Le sue tesi ideologiche vennero espressein svariate opere, e in particolare nel saggio L’ordine politico delle comunità (1947), con cui, sulle tracce di Emmanuel Mounier e Jacques Maritain, elaborò una dottrina mirante a costituire un ordinamento della società e dello Stato in grado di realizzare forme di autogoverno ‘a misura d’uomo’. Il movimento fondato da Olivetti ebbe un certo successo, e nelle elezioni del 25 maggio 1958 egli venne anche eletto deputato. Ma la sua carriera politica lo deluse alquanto, fino ad indurlo alle dimissioni nel 1959.
Non esiste un manoscritto della principale opera di Olivetti. La sua prima edizione fu stampata in Svizzera tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945. La prima stesura risale tuttavia alla fine del 1942, ma fu soltanto dopo la sua liberazione da Regina Coeli e la successiva fuga in Svizzera che l’opera prese progressivamente corpo. Nella certezza della fine imminente dei regimi autoritari che avevano scatenato la guerra, in tutta Europa si avvertiva l’urgenza di riformulare nuovi piani di ricostruzione democratica. Erano quegli gli anni in cui fu effettuata una riconsiderazione globale delle istituzioni e degli strumenti della politica, che aveva quale scopo di adeguare gli istituti politici ai nuovi bisogni di libertà e di crescita sociale dopo le sofferenze della guerra e della lotta per la resistenza.
L’intento del volume di Olivetti era quello di dare un contenuto istituzionale al socialismo. Ma il modo in cui fu accolto è noto. Non ci volle molto ad Olivetti, che si era iscritto al Partito socialista e lavorava nel suo ufficio studi, per comprendere che era entrato in una ‘stanza vuota’, senza molta influenza sul corpo del partito, e da questo punto di vista la sua posizione fu molto simile a quella di Antonio Banfi nel PCI. Olivetti abbandonò così il partito dopo pochi mesi. E minimi furono anche i consensi esterni.
I soldati americani che nel 1943 risalivano la penisola e, giunti a Matera, rimasero esterrefatti alla vista degli insediamenti cavernosi che erano abitati da generazioni di trogloditi. Tornati in patria, descrissero quello che avevano visto. Matera era all’epoca il simbolo dell’indigenza del nostro Mezzogiorno. E fu proprio con lo sbarco alleato che sorse un interesse internazionale e di tutti i partiti antifascisti italiani per la rinascita del Sud, ognuno dei quali ebbe un proprio programma politico.
Fu Carlo Levi, col suo Cristo si è fermato ad Eboli, a portare per la prima volta alla ribalta nazionale i Sassi di Matera, che divennero l’emblema dell’arretratezza e della povertà dell’intera Italia meridionale. I Sassi erano diventati un groviglio di case sovraffollate, sporche, senza le più elementari condizioni sanitarie per vivere degnamente (a cominciare dalla mancanza della fogna e di acqua corrente). Fino alla fine del Settecento l’ecosistema Sassi aveva mantenuto un regime di sostenibilità grazie a principi innovativi per l’epoca, oggi più che mai attuali: la conservazione delle acque, lo stoccaggio dei rifiuti ed il riuso degli spazi. Il sistema di raccolta delle acque di scolo, che era basato sui “Grabiglioni“, canali in parte naturali ed in parte scavati dall’uomo in cui confluiva l’acqua sorgiva dalla collina di Lapillo, in epoca fascista erano stati in parte ricoperti dalla pavimentazione. Nelle grotte scavate nel tufo uomini ed animali convivevano insieme, nel dilagare della malaria. Secondo le statistiche, la mortalità infantile raggiunse a Matera una percentuale catastrofica, basti pensare che su 1000 bambini nati 463 nascevano morti, contro la media nazionale ferma a 112.
Nell’immediato dopoguerra emersero svariate posizioni. Quella di matrice liberista riteneva inutile ogni intervento dello Stato e considerava che il futuro del Mezzogiorno non poteva essere che agricolo o, al massimo, agricolo-turistico. Anche la Confindustria era contraria a forme di intervento per il Sud, e lo stesso Luigi Einaudi nel 1960 intravedeva ancora tempi lunghi per lo sviluppo, suggerendo l’emigrazione verso il Nord. Nel centro-sinistra, Manlio Rossi-Doria, pur individuando la centralità del tema della riforma agraria, suggeriva di riformare le linee del liberismo liberale prefascista.
Il PCI, che riproponeva la posizione gramsciana dell’alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud, richiedeva concrete politiche di riforma agraria e l’assegnazione della terra a chi la coltivava, mantenendo tuttavia una linea intransigente e critica contro tutti i provvedimenti per il Sud adottati dopo il 1948, inclusa l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. E questo nonostante alcuni aderenti al PCI, tra cui il sindacalista Giuseppe Di Vittorio, promuovessero interventi attivi variegati, tra cui il Piano del lavoro del 1950. È solo a partire dalla metà degli anni Cinquanta che la linea del PCI si apre. Nel 1956 Giorgio Napolitano critica l’insufficienza della politica meridionalista, lamentando la scarsità degli investimenti e proponendo investimenti industriali consistenti.
Vi era, infine, un’ultima parte della sinistra, di orientamento cattolico o socialista, costituita da un gruppo di dirigenti dell’IRI (tra cui Pasquale Saraceno), che fondarono la Svimez e alcuni meridionalisti, che dettero origine alla corrente di pensiero “Nuovo Meridionalismo”, che a sua volta ricevette la collaborazione di illustri economisti di fama internazionale e che, raccogliendo le intuizioni di Nitti, rimarcò l’attenzione anche ai temi infrastrutturali, della piccola e media industria e del terziario.
Anche per Olivetti la scoperta della ‘questione meridionale’, come per gli americani, partì da Matera. L’approccio fu favorito da due singolari americani alla fine degli anni Quaranta. Uno è Guido Nadzo, un self-made di Monsummano trapiantato negli USA e ritornato in Italia a capo di vari enti istituiti per la ricostruzione (e incaricati di gestire i fondi del Piano Marshall). Conosciuto Olivetti, aderì entusiasticamente all’idea di riunire sotto un unico cappello le varie sigle che si occupavano di finanziamenti all’edilizia, idea che purtroppo naufragherà davanti alla tenace resistenza della burocrazia italiana. L’altro è un professore dell’Arkansas, Fitzgerald G. Friedman, che individua in Matera non solo un problema di risanamento edilizio-urbanistico ma anche (e soprattutto) un tema di valori di rispettare e riscattare in nome del mondo contadino.
Matera diventa così la capitale simbolica di un Sud che invoca il riscatto. L’incontro tra Friedman e le idee comunitarie di Olivetti è naturale, spontaneo. Il ‘cantiere’ non riguarderà solo la soluzione degli impellenti temi sanitari e abitativi, ma coinvolgerà un mix di discipline scientifiche, tra cui la sociologia. La rivista Comunità pubblicherà un vivace scambio di corrispondenza tra studiosi italiani e stranieri col titolo «I contadini». Nel 1949 viene così preparato un primo schema di intervento, e nel 1951 Olivetti manda da Ivrea l’ingegner Giovanni Battista Martoglio a coordinare una nutrita commissione di studi, dove accanto ai nomi già noti di Quaroni, Friedman, Tentori, Innocenti siedono giovani del ‘profondo Sud’. Si parla per ore con i contadini per cercare di capire, evitando di scaricare loro addosso formule e schemi preconfezionati. Per chi la visse in prima persona, fu un’esperienza irripetibile, il tentativo di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato: spingere il movimento contadino verso uno sviluppo civile, anziché verso uno sviluppo ‘materiale’ che avrebbe poi portato alla disgregazione del mondo contadino stesso, come ebbe a testimoniare Pier Paolo Pasolini con la sua poetica.
Adriano Olivetti incontra i fratelli Albino e Leonardo Sacco. Con loro, e con Friedman, Angela Zucconi e altri straordinari personaggi, anima un laboratorio dove progettisti, assistenti sociali, ingegneri, lavorano allo studio dei Sassi per costruire luoghi che restituiscano dignità e cittadinanza alle persone. Matera diventa un laboratorio importante, non solo per l’elaborazione e la realizzazione del famoso Borgo La Martella, ma perché contribuì ad accendere un focus importante sulla storia e sulla cultura contadina, che porteranno Lidia De Rita ad approfondire lo studio del vicinato.
L’inadeguatezza delle politiche di riforma agraria attuate fin dall’inizio degli anni Cinquanta nel Mezzogiorno determinerà tuttavia quella definitiva esplosione del fenomeno migratorio che diventerà un’incontenibile attrattiva per masse di famiglie contadine diseredate.
I centri di fondazione e insediamento agricolo della citata riforma, come ad esempio quello di Borgo Taccone, videro operare famiglie attratte dalle opportunità loro offerte dalla riforma agraria e dalle ingenti opere infrastrutturali promosse dai Consorzi e dalla Cassa del Mezzogiorno, e dalle tante opere pubbliche che in un primo brevissimo lasso di tempo, viste come il coronamento delle lotte contadine declamate da Rocco Scotellaro, potevano anche apparire soddisfacenti se confrontate con la radicata miseria di questi luoghi. Tuttavia, lavoro, diritti e servizi al Nord rappresentavano un riscatto immediato fortissimo tanto da superare ogni ostacolo frapposto a una cultura storicamente stanziale, fortemente legata al proprio territorio.
Di fatto già a metà degli anni Sessanta, a poco più di 15 anni dall’attuazione delle riforme, i circa due milioni di ettari di terreni agricoli che attraverso la Riforma agraria e i vari incentivi fiscali e creditizi erano stati bonificati, dotati di infrastrutture dunque appoderati e assegnati alla piccola proprietà coltivatrice, ma si sarebbero ridotti a meno di un terzo tra abbandoni e successivi passaggi di possesso, con una riduzione progressiva del numero di aziende riconducibili agli assegnatari originari.
Ciò che di grave soprattutto avvenne, insieme all’abbandono delle terre, fu anche un cambiamento antropologico. Insieme all’agricoltura, In sostanza, venne meno una generale cultura del sistema Paese, intesa in senso antropologico, come coscienza che risiedeva nella millenaria società contadina, radicata nei valori del proprio paesaggio, di quello sociale, che si può e si deve sempre sostenere democraticamente mediante la rappresentanza politica e culturale diffusa.
In una realtà caratterizzata da “regioni” come l’Italia, ma in cui il potere era ancora fortemente accentrato (le Regioni entreranno in funzione di fatto solo negli anni Settanta) mancò quella cultura di mediazione tra forze diverse che operavano all’interno della società e tra queste forze e il Paese. E, inoltre, nuovi modelli di sviluppo interessarono il Sud, attraverso la creazione di un’industria di Stato (es: le acciaierie di Taranto, i grandi impianti petrolchimici ecc.) che assesterà, in nome dell’emergenza occupazionali, enormi danni all’ambiente.
Oggi che siamo chiamati a riattivare un nuovo rapporto tra società e ambiente, e a tutelare il bene pubblico dell’acqua, i sogni di Olivetti sembrano svaniti nel nulla. Dalla riforma agraria degli anni Cinquanta si è ritornati a nuove forme di latifondo e di sfruttamento attraverso la piaga endemica del caporalato. La piccola proprietà contadina si dibatte nelle sue storiche difficoltà di sopravvivenza e le aziende agricole, per sopravvivere, devono avere grandi estensioni e grandi mezzi finanziari, e obbedire alle regole di un capitale globalizzato che ha scarso rispetto per la biodiversità, per i prodotti, per chi lavora e per le culture locali. Inoltre, come scrisse Renzo Zorzi nella sua nota introduttiva scritta nel 1970 a L’ordine politico delle comunità
«[…] i partiti sono macchine frantumate, incapaci di esprimere esecutivi e di controllarli, portate a selezionare il peggio della classe politica; la proporzionale ha fabbricato in continuazione gruppi e sottogruppi dando vita a parlamenti ingovernabili; i governi vivono non sui programmi ma sui sottogoverni; […] i valori scientifici e il rigore intellettuale non riescono […] ad esprimersi, schiacciati dal peso burocratico di corpi funzionariali conservatori e impermeabili».
Anche non volendo accettare la proposta comunitaria di Olivetti, non si può comunque non riconoscere la chiaroveggenza della sua analisi. Ora che l’ondata del neo-capitalismo agrario si è impadronita delle nostre campagne, e al Sud la piaga del caporalato continua a rimanere radicata nei comportamenti imprenditoriali, vuoi vedere che il successo della nostra nuova agricolturaderiverà proprio dalla riscoperta di valori diversi dal profitto ad ogni costo, della tutela dell’ambiente e della biodiversità, della valorizzazione dell’immenso patrimonio agroalimentareche ci ha tramandato la cultura contadina, e che alla fine aveva proprio ragione Adriano Olivetti?