Abbà – il gelso.

L’appuntamento con Lucia e Saverio era stato fissato per le 15.30 di sabato 3 dicembre, ad Altamura. Volevo fare la conoscenza del loro gelso centenario.

Avevo incontrato Lucia e Saverio circa quindici giorni prima in occasione di un’iniziativa, organizzata dalla “Lavedervia”, per festeggiare l’inclusione, nell’elenco degli alberi monumentali nazionali , di due alberi che si trovano a Gravina in Puglia, una  città non molto lontana da Altamura. Loro, in quell’occasione, avevano scoperto che avevo tentato, con discutibili risultati, di dipingere piccole icone con soggetti sacri.

Grande, pertanto, è stato il mio stupore quando, nel pomeriggio di sabato, ho fatto conoscenza dell’albero e di due sensibili artisti che dipingono, con una tecnica ineccepibile, splendide icone in stile bizantino.

L’albero, a cui i proprietari hanno dato il nome “Abbà” , termine aramaico  il cui significato è “padre”, può essere intravisto già dalla strada, scrutando tra le inferriate del cancello che interrompe l’elegante linea del muro di tufo, eretto a protezione della proprietà. Entrando dal cancello, si può ammirare l’albero volgendosi verso destra. Il gelso è cresciuto nel tempo proteso verso l’interno del giardino come se volesse invitare il visitatore a volgere lo sguardo e a procedere verso la parte centrale di questa oasi verde che è ciò che rimane di una proprietà ben più vasta di cui resta intatta solo questa parte.

La maestosità del gelso, che ha un portamento fiero e solenne,  si sposa, non contrastandola, con la sincerità con cui l’albero mostra le ferite subite negli anni. Il nome che Lucia e Saverio gli hanno dato è un prezioso indizio per percepire la sacralità delle vestigia di quello che, fino a pochissimo tempo fa, era la tenuta di un’antica villa padronale e un polmone verde di Altamura. L’antica tenuta è stata devastata e molti degli alberi sono stati abbattuti per far spazio ad una urbanizzazione incurante della bellezza dei luoghi, della memoria storica, delle tradizioni e il cui unico scopo è la ricerca di un tornaconto economico immediato e miope che vorrebbe lasciare solo spazio ad un appiattimento del sentire e ostacolare una rinascita del pensare.

Visitando il giardino ho ripensato al brano “Gli alberi spezzati” del “Canto degli alberi” di Herman Hesse, dove lo scrittore racconta l’orrore nello scoprire che un luogo, a lui caro e sacro, era stato profanato e un’antichissima scena familiare era andata distrutta: “Dall’altra parte c’era una vecchia locanda, di cui riconobbi da lontano il tetto. Stava lì, come al solito, ma sembrava stranamente cambiata, non capii subito perché. Solo  quando mi sforzai di ricordare i dettagli, mi venne in mente che davanti alla locanda c’erano sempre stati due grandi pioppi. Questi pioppi non c’erano più. … Là mi fermai e vidi il luogo dei miei più cari ricordi devastato,  ridotto alla distruzione più completa. I vecchi castagni all’ombra dei quali avevamo trascorso i nostri giorni più lieti e i cui tronchi da ragazzini riuscivamo a malapena ad abbracciare unendoci in tre, in quattro, giacevano spezzati, spaccati, con le radici strappate e rivoltate, tanto da lasciare nel terreno dei buchi giganteschi …”.

Abbà, invece, è rimasto per noi e, non solo è il fiero guardiano di un incantevole giardino, un luogo che ti accoglie raccontando la sua storia attraverso i colori del prato, la maestosità degli antichi alberi rimasti e le antiche pietre dei muri di recinzione ma, come dice il suo nome, rivendica la paternità spirituale sul luogo stesso. Una paternità che nell’Antico Testamento veniva attribuita  ai profeti e anche ai sacerdoti. 

Ringrazio il caso (ma, come molti prima di me  hanno già detto, il caso non esiste) per aver incontrato la sensibilità dei suoi proprietari trasfigurati in sensibili e gentili custodi della poesia dei luoghi.

Bari 4,12,2022

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